Eremo di Monte Corona
Le vicende dell'Eremo di Monte Corona sono strettamente legate a quelle dell'Abbazia di San Salvatore, già sede dei camaldolesi e dei coronesi. Morto Paolo Giustiniani il 28 giugno 1528 sul Monte Soratte a 52 anni d'età, venne eletto maggiore dei coronesi Agostino da Bassano e poi, alla sua morte (1529), Giustiniano da Bergamo, che fu un solerte propagatore della regola di Paolo Giustiniani. Giustiniano da Bergamo, che viene considerato il
secondo padre dei coronesi, propose al Capitolo generale l'erezione di un eremo a somiglianza di quello di Camaldoli, che fosse capo di tutta la Congregazione.Dopo molte proposte fu stabilito di fabbricarlo sulla vetta del Monte Corona, per la vicinanza all'Oratorio di San Savino e all'Abbazia di San Salvatore. Nel 1530, quando furono iniziati i lavori per la costruzione dell'Eremo, la chiesa dell'Abbazia era quasi diroccata, tanto che gli eremiti chiesero al papa Clemente XII la facoltà di demolirla ed usare i materiali recuperati per la costruzione del nuovo edificio religioso sulla vetta del Monte. Il papa concesse l'autorizzazione, ma proibì di demolire l'antica cripta. Intanto alcuni seguaci di Paolo Giustiniani si erano stabiliti nella piccola cappella a metà Monte, dedicata a San Savino, alla quale il patrizio perugino Raniero Beltramo aveva donato nel 1209 un appezzamento di terreno nei dintorni. Per una provvisoria sistemazione i monaci eressero le loro cellette attorno alla primitiva cappella, utilizzando tronchi d'albero, pietre e fango ed ogni giorno si recavano sulla sommità del Monte per portare avanti i lavori di costruzione del nuovo eremo.Oggi la cappella di San Savino è stata trasformata in una casa di civile abitazione; un tempo aveva la sacrestia adorna di affreschi a graffiti, due piccole cellette con camino e, fin dalle origini dell'Eremo, i monaci, un laico e un sacerdote, a mezzanotte, vi celebravano gli uffici divini. L'Abbazia di San Salvatore, San Savino e l'Eremo nel XVI secolo vennero uniti da una strada, chiamata "la mattonata", costruita a secco con blocchi di pietra arenaria; era larga circa due metri e si dice che finanziatore dell'opera sia stato il monaco eremita polacco Niccolò Walski, già nobile maresciallo, con la somma di seimila scudi.Nel maggio 1540 si tenne all'Abbazia di San Salvatore di Monte Corona il Capitolo generale con la partecipazione di molti eremiti camaldolesi e coronesi. Si discusse dell'unione di tutti i seguaci di S. Romualdo e, alla fine, fu trovato un accordo, stilato il 21 maggio 1540 da Angelo Nicoluccio di Fratta. Dalla convenzione però rimasero fuori i camaldolesi di Toscana, con i quali tenterà l'unione Giovanni Battista da Prato nel 1595. Il patto fra gli eremiti, stipulato alla Abbazia di Monte Corona nel 1540, si rivelò di breve durata, perché il 29 maggio 1542 troviamo coronesi e camaldolesi di nuovo separati.All'Eremo si stava intanto lavorando alacremente e, nell'aprile del 1553, il pontefice Paolo III concesse ai monaci coronesi, come sussidio ordinario per condurre a termine i lavori, il podere del Colle di San Savino e quello di San Giuliano, vicini all'Eremo stesso.La sommità del Monte cominciò a popolarsi e, nel 1555, venne cominciata la chiesa. In questi anni la vita dell'Abbazia di San Salvatore fu intensamente legata a quella che si svolgeva all'Eremo: erano due centri che tra loro si integravano. Il romitorio era il centro della vita spirituale, l'Abbazia (o Badia) la sede più importante delle attività economiche. Alla Badia erano concentrati i magazzini, gli uffici amministrativi, essendo di facile accesso per tutti; vi erano, inoltre, le abitazioni per quegli eremiti che, o per vecchiaia o per infermità, non potevano osservare le rigorose regole di vita praticate dai confratelli che vivevano all'Eremo. L'Abbazia era provvista di una farmacia che ebbe grande importanza anche fuori dei confini locali, in particolare per certi farmaci estratti dalle erbe (rinomatissimo il Balsamo ed il Fiasco, liquore contro la malaria)Celebre restò per lungo tempo tra i suoi farmacisti Fra' Camillo.Il farmacista laico Alessandro Burelli di Umbertide rimase in attività anche dopo che gli eremiti furono costretti a lasciare Monte Corona nel 1863. Alla Badia era poi sempre aperta una foresteria per ospitare pellegrini e viandanti.L'Eremo dove la regola eremitica trovava la più rigida applicazione, era invece luogo di meditazione e di preghiera. Nel 1556 vi morì con fama di santità il perugino Rodolfo Degli Oddi. Coronesi e camaldolesi di Toscana vivevano ancora separati e si pensò alla loro riunione. Nella assemblea generale tenuta a Monte Corona nel 1561 si parlò di questo problema e se ne ridiscusse nel Capitolo generale del 1580, sempre tenuto a Monte Corona, e poi di nuovo nel 1595. In realtà, fino al 1634, per novantadue anni, i camaldolesi toscani e quelli di Monte Corona rimasero separati.Nell'anno 1634, con il papa Urbano VIII, si stabilì di tornare ad una medesima regola, sotto un solo governo, sotto la protezione dello stesso padre San Romualdo, sub cuius bomine ac regularibus institutis militare profitentur (sotto il cui nome e con le regole stabilite hanno promesso di servire).Urbano VIII era deciso a rimettere ordine, e, per mantenere uniformità alla regola e perché una provincia non prevalesse sull'altra, decretò che gli eremi coronesi non potessero trasferirsi da provincia in provincia.Stipulata l'unione degli eremiti camaldolesi toscani con quelli coronesi, Monte corona si valorizzò ulteriormente, anche per la sua già efficiente organizzazione. In quello stesso 1634 la Congregazione Pedemontana dell'Eremo di Torino, fondato da Alessandro di Ceva nel 1601, chiese di essere unita a quella di Monte Corona con tutte le largizioni concesse dai principi di Savoia.I coronesi però non ebbero e non fondarono eremi solamente in Italia; dal 1601 organizzarono nuclei anche all'estero: in Francia, Polonia, Austria, Germania e Ungheria, divenendo uno degli ordini religiosi più importanti e seguiti.Per molti anni l'Eremo di Monte Corona fu il centro di quarantacinque cenobi, che si erano ridotti, nel 1840, a dodici, per le vicende del '700-'800.Nel febbraio 1798, pochi giorni dopo la proclamazione della Repubblica Romana, Luigi Bartoli, con un plotone di soldati francesi, fu inviato da Perugia alla Fratta per ispezionare i conventi e redigere un verbale sulla consistenza dei loro beni. Il comportamento del commissario Bartoli e dei soldati fu improntato a violenza e intimidazioni, sia nei confronti delle popolazioni sia dei monaci, minacciati di arresto se si fossero rifiutati di aderire alle richieste. Don Leopoldo, eremita "celleraro" di Monte Corona, racconta che il Bartoli lo minacciò di una grossa multa e dell'arresto immediato se non gli avesse mostrato l'inventario di tutti i beni dell'Abbazia e dell'Eremo e che i soldati si abbandonarono al saccheggio, sfondando porte e sfasciando armadi per sottrarre argenteria, pelli e stoffe, che ai monaci servivano per fare zoccoli e lenzuola.Qualche mese più tardi l'Eremo fu minacciato dall'espulsione dei religiosi forestieri, ma questo provvedimento non venne preso, come non venne effettuata la minacciata soppressione del convento, decisa quando ormai la Repubblica Romana aveva i giorni contati. Nell'ostacolare tale provvedimento, del resto, influì anche il comportamento degli amministratori di Fratta, che, in una lettera inviata all'Amministrazione Dipartimentale di Perugia, fecero presente che la soppressione del Monastero di Monte Corona non era ben visto dalla popolazione e che le entrate del cenobio servivano, in gran parte, a mantenere i poveri del Comune, ai quali i camaldolesi assicuravano vitto e medicinali. Inoltre essi aggiunsero che a Monte Corona erano ricoverati molti monaci anziani e di salute cagionevole, che sarebbe stato impossibile sistemare altrove; infine, concludevano gli amministratori di Fratta, i religiosi di Monte Corona avevano sempre dato il loro ampio contributo in foraggi per i cavalli e in viveri per i soldati, ogni volta che loro era stato richiesto. Il decreto di soppressione, nonostante tutto, giunse alla Fratta, ma non fu attuato per la fine della Repubblica.Con l'avvento al soglio pontificio di Pio VII e con la pace stipulata con Napoleone, lo Stato della Chiesa conservò quasi tutti i territori. Il Convento di Monte Corona rimase aperto fino al 1812, quando Napoleone emanò le leggi di soppressione degli ordini religiosi, ma nel 1814 il Papa ritornò nel suo stato e la vita dell'ordine dei camaldolesi coronesi riprese. In questo periodo fu dato corso ad una nuova strutturazione della chiesa e del campanile; nel 1828 furono fuse la più piccola e la più grande delle tre campane, mentre quella media fu allestita nell'anno successivo.Con l'avvento del Regno d'Italia e l'entrata in vigore delle leggi che prevedevano la confisca dei beni ecclesiastici, i coronesi, nonostante avessero inviato a Torino due eremiti per intercedere presso il Conte di Cavour, dovettero lasciare l'Eremo e l'Abbazia di San Salvatore nel 1863.Inizialmente lo Stato italiano affittò tutte le proprietà dei camaldolesi (2524 ha di terreni) ai fratelli Santicchi e Vaiani, poi, nel 1865, vendette al conte Giuseppe Manni. Il 27 marzo 1871 tutti i beni di Monte Corona furono acquistati dal marchese Filippo Marignoli, senatore del Regno d'Italia. Per oltre sessanta anni Monte Corona rimase a questa famiglia, che trascorse lunghi periodi anche all'Eremo. Il figlio di Filippo, Francesco, si unì in matrimonio con Flaminia Torlonia, dalla quale ebbe quattro figli; i due maschi, Liborio e Giulio, sposarono rispettivamente Beatrice, prima moglie di Guglielmo Marconi divorziata, e Marinetta Trotta di Umbertide. I Marignoli costruirono alla Badia una lussuosa abitazione, e negli anni trenta, un importante canale di irrigazione che utilizza le acque del Tevere.Nel periodo 1926-1927 entro la cinta muraria dell'Eremo furono abbattuti 2.233 abeti secolari, alcuni dei quali raggiungevano il diametro di ottantacinque cm..Verso la fine del 1935 i Marignoli cedettero la proprietà ad una banca, che la vendette nel 1938 al tenore Beniamino Gigli. Questi, al profilarsi della seconda guerra mondiale, rivendette all'I.F.I., istituto finanziario della F.I.A.T. di Torino, che passò poi i beni alla S.A.I., gruppo finanziario della famiglia Agnelli. Nel 1979 la S.A.I. entrò a far parte del gruppo Ursini ed oggi l'azienda di Monte Corona è chiamata "S.A.I. Agricola S.p.a.". Durante il secondo conflitto mondiale l'Eremo dette ospitalità a numerose famiglie di sfollati, che avevano abbandonato la città dopo i primi bombardamenti aerei del 1944 e per sfuggire alle rappresaglie nazifasciste.Dopo un violento cannoneggiamento durato alcuni giorni, la mattina del 5 luglio 1944 l'Eremo fu occupato dalle truppe anglo-americane, che entrarono dalla "Portaccia" e attraverso le brecce delle mura di cinta.Dagli anni successivi al 1960, con lo spopolamento delle campagne, anche l'Eremo è stato abbandonato da quelle poche famiglie di dipendenti dell'amministrazione agricola di Monte Corona che l'abitavano.Nel 1975 la comunità benedettina di Perugia, favorita dalla proprietà, tentò di occupare l'Eremo e di rimettere un po' d'ordine dopo anni di abbandono; l'esiguità delle forze impegnate rese però vano il tentativo e l'unico religioso che vi abitava dopo poco tempo lasciò l'impresa.Nei primi giorni del 1977 un guru indiano prese in affitto per alcuni anni l'antico Eremo e grandi furono le speranze e l'entusiasmo, considerati i progetti. Con alcuni collaboratori lo Yogi Sri Satyananda tentò di realizzare la sua missione di dare un nuovo equilibrio e orientamento all'uomo.Così nel luogo, che per secoli era stato centro di meditazione filosofica e religiosa per eremiti e monaci camaldolesi, coronesi, si ricreò una nuova intensa attività religiosa.L'Eremo stava diventando un ritiro spirituale (Sadhana Ash-ram) e furono iniziate opere di ripristino di una certa consistenza; fu risolto il problema dell'approvvigionamento dell'acqua potabile e tutto lasciava credere che l'Eremo tornasse a vivere. Il giorno di Pasqua del 1977 il Sadhana Ashram di Monte Corona venne inaugurato ufficialmente e tutto sembrava scorrere nel migliore dei modi; prima della fine del 1980 il guru Sri Satyananda e i suoi seguaci lasciarono l'Eremo.Dopo un altro anno circa di abbandono e di ulteriori vandaliche spoliazioni, è stato acquistato il 9 luglio 1981 dalla Comunità delle piccole sorelle monache di Betlemme, che l'hanno denominato Monastero di Betlemme Nostra Signora di Monte Corona. Il primo gruppo di suore (sei o sette) è giunto all'Eremo il 21 novembre 1981 per continuarvi la secolare tradizione dei monaci che qui sono vissuti.
Ora è posseduto dai "monaci di Belemme".
I Monaci di Betlemme
dell'eremo di Monte Corona
LA CHIESA NEL DESERTO
I contemplativi sono il cuore della chiesa. Attraverso di loro il sangue dell'amore di Cristo può fluire in tutto l'organismo.
di Achille Rossi
Fratel Philippe e fratel Agapetòs, avvolti nel bianco saio camaldolese, ci ricevono con squisita cortesia nella foresteria dell'eremo di Monte Corona. Appartengono alla congregazione di Betlemme, una famiglia monastica di recente fondazione, che si è insediata nell'antica struttura per rivitalizzarla spiritualmente e materialmente.
L'ORDINE FU CREATO DA DUE DONNE
«La nascita di quest'ordine religioso è abbastanza singolare - ci spiega fratel Philippe. Un gruppo di pellegrini francesi, venuti a Roma per la proclamazione del dogma dell'Assunta, riceve l'intuizione di fondare una nuova congregazione per rivivere l'atteggiamento contemplativo di Maria e anticipare la realtà del cielo». Comincia così per iniziativa di due donne, una cattolica e l'altra protestante, l'avventura delle monache di Betlemme. Il ramo maschile sorgerà 25 anni dopo. Attualmente la famiglia religiosa conta più di 500 membri sparsi nei monasteri dei diversi continenti.Da quanto tempo siete arrivati a Monte Corona? «Siamo qui da 12 anni. Prima di noi l'eremo è stato abitato dalle suore, che sono rimaste per nove anni e hanno iniziato i lavori di restauro».Come si svolge concretamente la vostra vita? «Noi ci ispiriamo alle fraternità di S. Bruno, il fondatore dei certosini, che si basano sulla vita in cella e la preghiera in segreto. Nel Vangelo Gesù invita i discepoli a pregare il Padre nel segreto. Così la nostra è una vita di silenzio, preghiera, adorazione, lavoro manuale, sempre in silenzio».A Camaldoli esistono i reclusi, che rimangono sempre nelle proprie celle, e i monaci che fanno vita comune. Vige anche da voli lo stesso criterio? «Una parte dei fratelli lavora e mangia in cella per tutta la giornata; si sposta solo per la recita dell'ufficio e per la messa. L'altra parte della comunità vive in cella per metà del tempo, ma lavora nella grande casa, sempre in solitudine».
LA GIORNATA TIPO
Com'è articolata una giornata tipo dell'eremo?
Un Monaco ritorna nella sua cella solitaria dopo l'ufficio liturgico di Mattutino
«Dalle quattro, quando ci alziamo, fino alle 6.45 è un tempo dedicato alla preghiera in cella.Segue l' ufficio di mattutino che viene recitato coralmente in cappella, poi un tempo di formazione e di studio. Alle 10.20 c'è la preghiera di terza in cella e il pranzo. Alle 11.45, dopo la recita di sesta, inizia il lavoro manuale che si protrae fino alle 15.45. L'ufficio dell'ora nona segna la fine del lavoro e l'inizio della cena. Alle 17 di nuovo in chiesa per i vespri e la celebrazione eucaristica».Quando si conclude la vostra giornata? « Alla fine della messa abbiamo una mezz'ora di silenzio, poi alle 19 torniamo in cella per un'ultima preghiera e la recita di compieta. La giornata si chiude attorno alle 20 di sera».In che consiste il lavoro pomeridiano? «Lavoriamo la ceramica, che è una delle fonti di sostentamento della comunità, e dipingiamo le icone secondo la tradizione orientale. E' un artigianato che nasce dalla preghiera e vuole evocare l'invisibile».Nel monastero c'è una foresteria. Accogliete anche gli ospiti? «Riceviamo volentieri coloro che desiderano fare un periodo di silenzio. Abbiamo 7 celle per eventuali ospiti, che possono essere accompagnati spiritualmente da un fratello e partecipare alle preghiere comuni»-Quando facciamo notare ai due monaci che per l'uomo comune la vita dell'eremo è molto dura, fratel Philippe ha un moto di sorpresa: «Per voi forse, non per noi». Ma cosa volete affermare con questo stile di vita e con un pratica così rigorosa del silenzio? «Nel Vangelo di Giovanni Gesù dice che il Padre cerca adoratori in spirito e verità. Noi riceviamo dal Signore la chiamata a vivere questa adorazione del Padre nel segreto e anticipiamo sulla terra la realtà del cielo. Il monachesimo è una profezia della realtà futura e prefigura il momento in cui "Dio sarà tutto in tutti", come dice Paolo».
UNA FUGA DAL MONDO?
Gesù però ha vissuto tra la gente e non si è ritirato dal mondo tranne che nei momenti di preghiera. La vostra vita non potrebbe essere considerata una fuga dal mondo? «Gesù ha condotto 30 anni anni di esistenza silenziosa e tre anni di vita pubblica, durante la quale ha lasciato intuire l'importanza di questa relazione col padre. Si ritirava in silenzio sulla montagna, per manifestare che l'incontro col Padre era un'esperienza di fuoco che non si può spiegare. Lì era il nucleo della sua vita. Ma è anche il centro dell'esistenza di ogni cristiano. Dopo la sua resurrezione Gesù dice a Pietro:"Seguimi". Egli va nel seno del Padre ed è in questa comunione d'amore che egli vuole attirare tutti gli uomini».Perché voi monaci volete anticipare, in un certo senso, questo incontro? «E' un atto d'amore. Ci sentiamo chiamati personalmente fin d'ora. No a tutta la chiesa è richiesta questa anticipazione ma solo ad alcuni. Comunque tutti i cristiani, poiché hanno ricevuto il battesimo, portano nel loro intimo questa presenza divina che vivifica tutte le dimensioni della vita e sono tenuti a coltivarla. Noi monaci vogliamo testimoniare che Dio basta per una persona umana, perché il suo amore può riempire tutta l'esistenza. Non è troppo duro, no. E' duro solo quando manca l'amore. In fin dei conti, non facciamo niente di speciale: mangiamo, lavoriamo, dormiamo, viviamo la quotidianità di tutti, ma sotto lo sguardo di Dio». Cosa vuole indicare alla società di oggi, la vostra vita silenziosa? «Il silenzio, appunto, che è il contrario dell'agitazione e del caos contemporaneo - risponde Agapeòs. Noi cerchiamo l'incontro con Dio e con i fratelli, ma abbiamo bisogno per questo di condivisione e di silenzio, che è la condizione della verità di ogni incontro. Nel silenzio noi portiamo i problemi di tutta la chiesa e della gente di oggi che ha smarrito il significato della vita. L'esperienza monastica ricorda al mondo contemporaneo, particolarmente ai giovani, il senso della cose ultime».Proprio per questo c'è bisogno di una chiesa che vada in mezzo ai giovani e che li raggiunga nel mondo! «E' vero, ma anche di una chiesa del deserto che rammenti loro che l'uomo è fatto per il Mistero».Come fate a coltivare rapporti interpersonali se vivete sempre in solitudine e in silenzio? «La domenica tutti gli uffici sono celebrati insieme; nel pomeriggio facciamo una passeggiata di tre ore durante la quale abbiamo scambi tra noi. La nostra regola prevede anche incontri comunitari. E poi non bisogna dimenticare che il silenzio avvicina le persone: è un'apertura radicale nei confronti degli altri».Quali difficoltà incontrate nel vivere la vostra esperienza monastica? «Non certo quelle che la gente immagina: l'alzarsi presto, il silenzio, una certa sobrietà. Abbiamo le comodità normali La difficoltà più vera è quella di diventare discepoli di Gesù. Potremmo non farlo e questo dall'esterno non si vede». Per me - continua Philippe - lo scoglio vero è vivere l'amore di Gesù in una comunità in cui siamo così diversi, praticare la povertà come Gesù l'ha praticata... Rinunciare alle cose è facile; difficile è rinunciare a se stessi».
QUALI ECHI DAL MONDO?
Quali echi del mondo arrivano nella solitudine di Monte Corona? «Tutti i problemi contemporanei ci toccano: droga, ingiusta distribuzione dei beni fra ricchi e poveri, manipolazione genetica. Nel mondo c'è una lotta contro l'amore e contro l'uomo di cui la gente non ha nemmeno coscienza. Eppure cresce anche un movimento che desidera una nuova umanità. Ho l'impressione che i giovani siano molto sensibili alla vita».Una domanda impertinente: leggete mai i giornali? «Siamo abbonati all'Osservatore Romano, ma sono convinto che per avvicinarsi all'uomo esista un'altra via. Vivendo in solitudine facciamo l'esperienza del nostro io, della nostra miseria e così impariamo cosa c'è nell'uomo guardando quel che si agita nel nostro cuore. Il monaco acquista una certa scienza dell'uomo non tramite le notizie del giornale, ma per la via dell'interiorità».Come fate a testimoniare l'amore di Dio se vivete lontani dal mondo? «La testimonianza dell'amore ha due versanti: uno visibile e uno invisibile e tutti e due fanno parte della chiesa. Gesù diffonde il suo Spirito nei nostri cuori in maniera invisibile ed è a questo livello che noi ci collochiamo. Anche nel corpo ci sono organi che non si vedono come il cuore e che pure hanno una funzione essenziale. I contemplativi sono il cuore della chiesa; attraverso di loro il sangue dell'amore di Cristo può fluire in tutto l'organismo».Il paragone non è casuale. Philippe, il superiore, è medico e ha esercitato la professione. Agapetòs invece, responsabile culturale del monastero, è matematico, figlio d'arte. Mentre ci accompagnano all'uscita dell'eremo proviamo una sensazione di leggerezza: come fossimo contagiati dalla serenità di questi luoghi silenziosi.
Le vicende dell'Eremo di Monte Corona sono strettamente legate a quelle dell'Abbazia di San Salvatore, già sede dei camaldolesi e dei coronesi. Morto Paolo Giustiniani il 28 giugno 1528 sul Monte Soratte a 52 anni d'età, venne eletto maggiore dei coronesi Agostino da Bassano e poi, alla sua morte (1529), Giustiniano da Bergamo, che fu un solerte propagatore della regola di Paolo Giustiniani. Giustiniano da Bergamo, che viene considerato il
secondo padre dei coronesi, propose al Capitolo generale l'erezione di un eremo a somiglianza di quello di Camaldoli, che fosse capo di tutta la Congregazione.Dopo molte proposte fu stabilito di fabbricarlo sulla vetta del Monte Corona, per la vicinanza all'Oratorio di San Savino e all'Abbazia di San Salvatore. Nel 1530, quando furono iniziati i lavori per la costruzione dell'Eremo, la chiesa dell'Abbazia era quasi diroccata, tanto che gli eremiti chiesero al papa Clemente XII la facoltà di demolirla ed usare i materiali recuperati per la costruzione del nuovo edificio religioso sulla vetta del Monte. Il papa concesse l'autorizzazione, ma proibì di demolire l'antica cripta. Intanto alcuni seguaci di Paolo Giustiniani si erano stabiliti nella piccola cappella a metà Monte, dedicata a San Savino, alla quale il patrizio perugino Raniero Beltramo aveva donato nel 1209 un appezzamento di terreno nei dintorni. Per una provvisoria sistemazione i monaci eressero le loro cellette attorno alla primitiva cappella, utilizzando tronchi d'albero, pietre e fango ed ogni giorno si recavano sulla sommità del Monte per portare avanti i lavori di costruzione del nuovo eremo.Oggi la cappella di San Savino è stata trasformata in una casa di civile abitazione; un tempo aveva la sacrestia adorna di affreschi a graffiti, due piccole cellette con camino e, fin dalle origini dell'Eremo, i monaci, un laico e un sacerdote, a mezzanotte, vi celebravano gli uffici divini. L'Abbazia di San Salvatore, San Savino e l'Eremo nel XVI secolo vennero uniti da una strada, chiamata "la mattonata", costruita a secco con blocchi di pietra arenaria; era larga circa due metri e si dice che finanziatore dell'opera sia stato il monaco eremita polacco Niccolò Walski, già nobile maresciallo, con la somma di seimila scudi.Nel maggio 1540 si tenne all'Abbazia di San Salvatore di Monte Corona il Capitolo generale con la partecipazione di molti eremiti camaldolesi e coronesi. Si discusse dell'unione di tutti i seguaci di S. Romualdo e, alla fine, fu trovato un accordo, stilato il 21 maggio 1540 da Angelo Nicoluccio di Fratta. Dalla convenzione però rimasero fuori i camaldolesi di Toscana, con i quali tenterà l'unione Giovanni Battista da Prato nel 1595. Il patto fra gli eremiti, stipulato alla Abbazia di Monte Corona nel 1540, si rivelò di breve durata, perché il 29 maggio 1542 troviamo coronesi e camaldolesi di nuovo separati.All'Eremo si stava intanto lavorando alacremente e, nell'aprile del 1553, il pontefice Paolo III concesse ai monaci coronesi, come sussidio ordinario per condurre a termine i lavori, il podere del Colle di San Savino e quello di San Giuliano, vicini all'Eremo stesso.La sommità del Monte cominciò a popolarsi e, nel 1555, venne cominciata la chiesa. In questi anni la vita dell'Abbazia di San Salvatore fu intensamente legata a quella che si svolgeva all'Eremo: erano due centri che tra loro si integravano. Il romitorio era il centro della vita spirituale, l'Abbazia (o Badia) la sede più importante delle attività economiche. Alla Badia erano concentrati i magazzini, gli uffici amministrativi, essendo di facile accesso per tutti; vi erano, inoltre, le abitazioni per quegli eremiti che, o per vecchiaia o per infermità, non potevano osservare le rigorose regole di vita praticate dai confratelli che vivevano all'Eremo. L'Abbazia era provvista di una farmacia che ebbe grande importanza anche fuori dei confini locali, in particolare per certi farmaci estratti dalle erbe (rinomatissimo il Balsamo ed il Fiasco, liquore contro la malaria)Celebre restò per lungo tempo tra i suoi farmacisti Fra' Camillo.Il farmacista laico Alessandro Burelli di Umbertide rimase in attività anche dopo che gli eremiti furono costretti a lasciare Monte Corona nel 1863. Alla Badia era poi sempre aperta una foresteria per ospitare pellegrini e viandanti.L'Eremo dove la regola eremitica trovava la più rigida applicazione, era invece luogo di meditazione e di preghiera. Nel 1556 vi morì con fama di santità il perugino Rodolfo Degli Oddi. Coronesi e camaldolesi di Toscana vivevano ancora separati e si pensò alla loro riunione. Nella assemblea generale tenuta a Monte Corona nel 1561 si parlò di questo problema e se ne ridiscusse nel Capitolo generale del 1580, sempre tenuto a Monte Corona, e poi di nuovo nel 1595. In realtà, fino al 1634, per novantadue anni, i camaldolesi toscani e quelli di Monte Corona rimasero separati.Nell'anno 1634, con il papa Urbano VIII, si stabilì di tornare ad una medesima regola, sotto un solo governo, sotto la protezione dello stesso padre San Romualdo, sub cuius bomine ac regularibus institutis militare profitentur (sotto il cui nome e con le regole stabilite hanno promesso di servire).Urbano VIII era deciso a rimettere ordine, e, per mantenere uniformità alla regola e perché una provincia non prevalesse sull'altra, decretò che gli eremi coronesi non potessero trasferirsi da provincia in provincia.Stipulata l'unione degli eremiti camaldolesi toscani con quelli coronesi, Monte corona si valorizzò ulteriormente, anche per la sua già efficiente organizzazione. In quello stesso 1634 la Congregazione Pedemontana dell'Eremo di Torino, fondato da Alessandro di Ceva nel 1601, chiese di essere unita a quella di Monte Corona con tutte le largizioni concesse dai principi di Savoia.I coronesi però non ebbero e non fondarono eremi solamente in Italia; dal 1601 organizzarono nuclei anche all'estero: in Francia, Polonia, Austria, Germania e Ungheria, divenendo uno degli ordini religiosi più importanti e seguiti.Per molti anni l'Eremo di Monte Corona fu il centro di quarantacinque cenobi, che si erano ridotti, nel 1840, a dodici, per le vicende del '700-'800.Nel febbraio 1798, pochi giorni dopo la proclamazione della Repubblica Romana, Luigi Bartoli, con un plotone di soldati francesi, fu inviato da Perugia alla Fratta per ispezionare i conventi e redigere un verbale sulla consistenza dei loro beni. Il comportamento del commissario Bartoli e dei soldati fu improntato a violenza e intimidazioni, sia nei confronti delle popolazioni sia dei monaci, minacciati di arresto se si fossero rifiutati di aderire alle richieste. Don Leopoldo, eremita "celleraro" di Monte Corona, racconta che il Bartoli lo minacciò di una grossa multa e dell'arresto immediato se non gli avesse mostrato l'inventario di tutti i beni dell'Abbazia e dell'Eremo e che i soldati si abbandonarono al saccheggio, sfondando porte e sfasciando armadi per sottrarre argenteria, pelli e stoffe, che ai monaci servivano per fare zoccoli e lenzuola.Qualche mese più tardi l'Eremo fu minacciato dall'espulsione dei religiosi forestieri, ma questo provvedimento non venne preso, come non venne effettuata la minacciata soppressione del convento, decisa quando ormai la Repubblica Romana aveva i giorni contati. Nell'ostacolare tale provvedimento, del resto, influì anche il comportamento degli amministratori di Fratta, che, in una lettera inviata all'Amministrazione Dipartimentale di Perugia, fecero presente che la soppressione del Monastero di Monte Corona non era ben visto dalla popolazione e che le entrate del cenobio servivano, in gran parte, a mantenere i poveri del Comune, ai quali i camaldolesi assicuravano vitto e medicinali. Inoltre essi aggiunsero che a Monte Corona erano ricoverati molti monaci anziani e di salute cagionevole, che sarebbe stato impossibile sistemare altrove; infine, concludevano gli amministratori di Fratta, i religiosi di Monte Corona avevano sempre dato il loro ampio contributo in foraggi per i cavalli e in viveri per i soldati, ogni volta che loro era stato richiesto. Il decreto di soppressione, nonostante tutto, giunse alla Fratta, ma non fu attuato per la fine della Repubblica.Con l'avvento al soglio pontificio di Pio VII e con la pace stipulata con Napoleone, lo Stato della Chiesa conservò quasi tutti i territori. Il Convento di Monte Corona rimase aperto fino al 1812, quando Napoleone emanò le leggi di soppressione degli ordini religiosi, ma nel 1814 il Papa ritornò nel suo stato e la vita dell'ordine dei camaldolesi coronesi riprese. In questo periodo fu dato corso ad una nuova strutturazione della chiesa e del campanile; nel 1828 furono fuse la più piccola e la più grande delle tre campane, mentre quella media fu allestita nell'anno successivo.Con l'avvento del Regno d'Italia e l'entrata in vigore delle leggi che prevedevano la confisca dei beni ecclesiastici, i coronesi, nonostante avessero inviato a Torino due eremiti per intercedere presso il Conte di Cavour, dovettero lasciare l'Eremo e l'Abbazia di San Salvatore nel 1863.Inizialmente lo Stato italiano affittò tutte le proprietà dei camaldolesi (2524 ha di terreni) ai fratelli Santicchi e Vaiani, poi, nel 1865, vendette al conte Giuseppe Manni. Il 27 marzo 1871 tutti i beni di Monte Corona furono acquistati dal marchese Filippo Marignoli, senatore del Regno d'Italia. Per oltre sessanta anni Monte Corona rimase a questa famiglia, che trascorse lunghi periodi anche all'Eremo. Il figlio di Filippo, Francesco, si unì in matrimonio con Flaminia Torlonia, dalla quale ebbe quattro figli; i due maschi, Liborio e Giulio, sposarono rispettivamente Beatrice, prima moglie di Guglielmo Marconi divorziata, e Marinetta Trotta di Umbertide. I Marignoli costruirono alla Badia una lussuosa abitazione, e negli anni trenta, un importante canale di irrigazione che utilizza le acque del Tevere.Nel periodo 1926-1927 entro la cinta muraria dell'Eremo furono abbattuti 2.233 abeti secolari, alcuni dei quali raggiungevano il diametro di ottantacinque cm..Verso la fine del 1935 i Marignoli cedettero la proprietà ad una banca, che la vendette nel 1938 al tenore Beniamino Gigli. Questi, al profilarsi della seconda guerra mondiale, rivendette all'I.F.I., istituto finanziario della F.I.A.T. di Torino, che passò poi i beni alla S.A.I., gruppo finanziario della famiglia Agnelli. Nel 1979 la S.A.I. entrò a far parte del gruppo Ursini ed oggi l'azienda di Monte Corona è chiamata "S.A.I. Agricola S.p.a.". Durante il secondo conflitto mondiale l'Eremo dette ospitalità a numerose famiglie di sfollati, che avevano abbandonato la città dopo i primi bombardamenti aerei del 1944 e per sfuggire alle rappresaglie nazifasciste.Dopo un violento cannoneggiamento durato alcuni giorni, la mattina del 5 luglio 1944 l'Eremo fu occupato dalle truppe anglo-americane, che entrarono dalla "Portaccia" e attraverso le brecce delle mura di cinta.Dagli anni successivi al 1960, con lo spopolamento delle campagne, anche l'Eremo è stato abbandonato da quelle poche famiglie di dipendenti dell'amministrazione agricola di Monte Corona che l'abitavano.Nel 1975 la comunità benedettina di Perugia, favorita dalla proprietà, tentò di occupare l'Eremo e di rimettere un po' d'ordine dopo anni di abbandono; l'esiguità delle forze impegnate rese però vano il tentativo e l'unico religioso che vi abitava dopo poco tempo lasciò l'impresa.Nei primi giorni del 1977 un guru indiano prese in affitto per alcuni anni l'antico Eremo e grandi furono le speranze e l'entusiasmo, considerati i progetti. Con alcuni collaboratori lo Yogi Sri Satyananda tentò di realizzare la sua missione di dare un nuovo equilibrio e orientamento all'uomo.Così nel luogo, che per secoli era stato centro di meditazione filosofica e religiosa per eremiti e monaci camaldolesi, coronesi, si ricreò una nuova intensa attività religiosa.L'Eremo stava diventando un ritiro spirituale (Sadhana Ash-ram) e furono iniziate opere di ripristino di una certa consistenza; fu risolto il problema dell'approvvigionamento dell'acqua potabile e tutto lasciava credere che l'Eremo tornasse a vivere. Il giorno di Pasqua del 1977 il Sadhana Ashram di Monte Corona venne inaugurato ufficialmente e tutto sembrava scorrere nel migliore dei modi; prima della fine del 1980 il guru Sri Satyananda e i suoi seguaci lasciarono l'Eremo.Dopo un altro anno circa di abbandono e di ulteriori vandaliche spoliazioni, è stato acquistato il 9 luglio 1981 dalla Comunità delle piccole sorelle monache di Betlemme, che l'hanno denominato Monastero di Betlemme Nostra Signora di Monte Corona. Il primo gruppo di suore (sei o sette) è giunto all'Eremo il 21 novembre 1981 per continuarvi la secolare tradizione dei monaci che qui sono vissuti.
Ora è posseduto dai "monaci di Belemme".
I Monaci di Betlemme
dell'eremo di Monte Corona
LA CHIESA NEL DESERTO
I contemplativi sono il cuore della chiesa. Attraverso di loro il sangue dell'amore di Cristo può fluire in tutto l'organismo.
di Achille Rossi
Fratel Philippe e fratel Agapetòs, avvolti nel bianco saio camaldolese, ci ricevono con squisita cortesia nella foresteria dell'eremo di Monte Corona. Appartengono alla congregazione di Betlemme, una famiglia monastica di recente fondazione, che si è insediata nell'antica struttura per rivitalizzarla spiritualmente e materialmente.
L'ORDINE FU CREATO DA DUE DONNE
«La nascita di quest'ordine religioso è abbastanza singolare - ci spiega fratel Philippe. Un gruppo di pellegrini francesi, venuti a Roma per la proclamazione del dogma dell'Assunta, riceve l'intuizione di fondare una nuova congregazione per rivivere l'atteggiamento contemplativo di Maria e anticipare la realtà del cielo». Comincia così per iniziativa di due donne, una cattolica e l'altra protestante, l'avventura delle monache di Betlemme. Il ramo maschile sorgerà 25 anni dopo. Attualmente la famiglia religiosa conta più di 500 membri sparsi nei monasteri dei diversi continenti.Da quanto tempo siete arrivati a Monte Corona? «Siamo qui da 12 anni. Prima di noi l'eremo è stato abitato dalle suore, che sono rimaste per nove anni e hanno iniziato i lavori di restauro».Come si svolge concretamente la vostra vita? «Noi ci ispiriamo alle fraternità di S. Bruno, il fondatore dei certosini, che si basano sulla vita in cella e la preghiera in segreto. Nel Vangelo Gesù invita i discepoli a pregare il Padre nel segreto. Così la nostra è una vita di silenzio, preghiera, adorazione, lavoro manuale, sempre in silenzio».A Camaldoli esistono i reclusi, che rimangono sempre nelle proprie celle, e i monaci che fanno vita comune. Vige anche da voli lo stesso criterio? «Una parte dei fratelli lavora e mangia in cella per tutta la giornata; si sposta solo per la recita dell'ufficio e per la messa. L'altra parte della comunità vive in cella per metà del tempo, ma lavora nella grande casa, sempre in solitudine».
LA GIORNATA TIPO
Com'è articolata una giornata tipo dell'eremo?
Un Monaco ritorna nella sua cella solitaria dopo l'ufficio liturgico di Mattutino
«Dalle quattro, quando ci alziamo, fino alle 6.45 è un tempo dedicato alla preghiera in cella.Segue l' ufficio di mattutino che viene recitato coralmente in cappella, poi un tempo di formazione e di studio. Alle 10.20 c'è la preghiera di terza in cella e il pranzo. Alle 11.45, dopo la recita di sesta, inizia il lavoro manuale che si protrae fino alle 15.45. L'ufficio dell'ora nona segna la fine del lavoro e l'inizio della cena. Alle 17 di nuovo in chiesa per i vespri e la celebrazione eucaristica».Quando si conclude la vostra giornata? « Alla fine della messa abbiamo una mezz'ora di silenzio, poi alle 19 torniamo in cella per un'ultima preghiera e la recita di compieta. La giornata si chiude attorno alle 20 di sera».In che consiste il lavoro pomeridiano? «Lavoriamo la ceramica, che è una delle fonti di sostentamento della comunità, e dipingiamo le icone secondo la tradizione orientale. E' un artigianato che nasce dalla preghiera e vuole evocare l'invisibile».Nel monastero c'è una foresteria. Accogliete anche gli ospiti? «Riceviamo volentieri coloro che desiderano fare un periodo di silenzio. Abbiamo 7 celle per eventuali ospiti, che possono essere accompagnati spiritualmente da un fratello e partecipare alle preghiere comuni»-Quando facciamo notare ai due monaci che per l'uomo comune la vita dell'eremo è molto dura, fratel Philippe ha un moto di sorpresa: «Per voi forse, non per noi». Ma cosa volete affermare con questo stile di vita e con un pratica così rigorosa del silenzio? «Nel Vangelo di Giovanni Gesù dice che il Padre cerca adoratori in spirito e verità. Noi riceviamo dal Signore la chiamata a vivere questa adorazione del Padre nel segreto e anticipiamo sulla terra la realtà del cielo. Il monachesimo è una profezia della realtà futura e prefigura il momento in cui "Dio sarà tutto in tutti", come dice Paolo».
UNA FUGA DAL MONDO?
Gesù però ha vissuto tra la gente e non si è ritirato dal mondo tranne che nei momenti di preghiera. La vostra vita non potrebbe essere considerata una fuga dal mondo? «Gesù ha condotto 30 anni anni di esistenza silenziosa e tre anni di vita pubblica, durante la quale ha lasciato intuire l'importanza di questa relazione col padre. Si ritirava in silenzio sulla montagna, per manifestare che l'incontro col Padre era un'esperienza di fuoco che non si può spiegare. Lì era il nucleo della sua vita. Ma è anche il centro dell'esistenza di ogni cristiano. Dopo la sua resurrezione Gesù dice a Pietro:"Seguimi". Egli va nel seno del Padre ed è in questa comunione d'amore che egli vuole attirare tutti gli uomini».Perché voi monaci volete anticipare, in un certo senso, questo incontro? «E' un atto d'amore. Ci sentiamo chiamati personalmente fin d'ora. No a tutta la chiesa è richiesta questa anticipazione ma solo ad alcuni. Comunque tutti i cristiani, poiché hanno ricevuto il battesimo, portano nel loro intimo questa presenza divina che vivifica tutte le dimensioni della vita e sono tenuti a coltivarla. Noi monaci vogliamo testimoniare che Dio basta per una persona umana, perché il suo amore può riempire tutta l'esistenza. Non è troppo duro, no. E' duro solo quando manca l'amore. In fin dei conti, non facciamo niente di speciale: mangiamo, lavoriamo, dormiamo, viviamo la quotidianità di tutti, ma sotto lo sguardo di Dio». Cosa vuole indicare alla società di oggi, la vostra vita silenziosa? «Il silenzio, appunto, che è il contrario dell'agitazione e del caos contemporaneo - risponde Agapeòs. Noi cerchiamo l'incontro con Dio e con i fratelli, ma abbiamo bisogno per questo di condivisione e di silenzio, che è la condizione della verità di ogni incontro. Nel silenzio noi portiamo i problemi di tutta la chiesa e della gente di oggi che ha smarrito il significato della vita. L'esperienza monastica ricorda al mondo contemporaneo, particolarmente ai giovani, il senso della cose ultime».Proprio per questo c'è bisogno di una chiesa che vada in mezzo ai giovani e che li raggiunga nel mondo! «E' vero, ma anche di una chiesa del deserto che rammenti loro che l'uomo è fatto per il Mistero».Come fate a coltivare rapporti interpersonali se vivete sempre in solitudine e in silenzio? «La domenica tutti gli uffici sono celebrati insieme; nel pomeriggio facciamo una passeggiata di tre ore durante la quale abbiamo scambi tra noi. La nostra regola prevede anche incontri comunitari. E poi non bisogna dimenticare che il silenzio avvicina le persone: è un'apertura radicale nei confronti degli altri».Quali difficoltà incontrate nel vivere la vostra esperienza monastica? «Non certo quelle che la gente immagina: l'alzarsi presto, il silenzio, una certa sobrietà. Abbiamo le comodità normali La difficoltà più vera è quella di diventare discepoli di Gesù. Potremmo non farlo e questo dall'esterno non si vede». Per me - continua Philippe - lo scoglio vero è vivere l'amore di Gesù in una comunità in cui siamo così diversi, praticare la povertà come Gesù l'ha praticata... Rinunciare alle cose è facile; difficile è rinunciare a se stessi».
QUALI ECHI DAL MONDO?
Quali echi del mondo arrivano nella solitudine di Monte Corona? «Tutti i problemi contemporanei ci toccano: droga, ingiusta distribuzione dei beni fra ricchi e poveri, manipolazione genetica. Nel mondo c'è una lotta contro l'amore e contro l'uomo di cui la gente non ha nemmeno coscienza. Eppure cresce anche un movimento che desidera una nuova umanità. Ho l'impressione che i giovani siano molto sensibili alla vita».Una domanda impertinente: leggete mai i giornali? «Siamo abbonati all'Osservatore Romano, ma sono convinto che per avvicinarsi all'uomo esista un'altra via. Vivendo in solitudine facciamo l'esperienza del nostro io, della nostra miseria e così impariamo cosa c'è nell'uomo guardando quel che si agita nel nostro cuore. Il monaco acquista una certa scienza dell'uomo non tramite le notizie del giornale, ma per la via dell'interiorità».Come fate a testimoniare l'amore di Dio se vivete lontani dal mondo? «La testimonianza dell'amore ha due versanti: uno visibile e uno invisibile e tutti e due fanno parte della chiesa. Gesù diffonde il suo Spirito nei nostri cuori in maniera invisibile ed è a questo livello che noi ci collochiamo. Anche nel corpo ci sono organi che non si vedono come il cuore e che pure hanno una funzione essenziale. I contemplativi sono il cuore della chiesa; attraverso di loro il sangue dell'amore di Cristo può fluire in tutto l'organismo».Il paragone non è casuale. Philippe, il superiore, è medico e ha esercitato la professione. Agapetòs invece, responsabile culturale del monastero, è matematico, figlio d'arte. Mentre ci accompagnano all'uscita dell'eremo proviamo una sensazione di leggerezza: come fossimo contagiati dalla serenità di questi luoghi silenziosi.
Monastero dell'Assunta Incoronata (maschile) ITALIA - Monte Corona 06019 Umbertide (PG)
Monastero Madonna del Deserto (femminile) ITALIA - 06020 Mocaiana (PG)-